Sguardo di Lorenzo Barbasetti di Prun

Undici dicembre 2017. Giungo a Borca in una sera da lupi. Si è alzato lo scirocco e la neve ha virato in pioggia battente. Sulla strada si formano piscine e la macchina comincia a perdere aderenza in curva. Il tergicristallo sta a stento al passo con il ritmo incessante della pioggia.
Giungo a Borca per la prima volta. Ho attraversato più volte il Cadore, percorrendo quella lunga strada che si snoda a mezza costa infilandone i comuni come perle sul filo di una collana. Non mi ero mai fermato però. E assolutamente non sospettavo cosa nascondessero i suoi boschi.

Svolto a destra preceduto solo dalla debole luce dei miei fanali. Per un istante ho l’impressione di essere il personaggio di un qualche romanzo gotico, ma i miei riferimenti sono piuttosto confusi a riguardo e passo da Van Helsing a Frankenstein Junior e ovviamente Shining.
Sono arrivato fin qui anche io dalla grande città, da Londra in questo caso, sulla scia della mia
ricerca del remoto. La mia macro definizione di remoto, quella che mi son dato per conferire una forma al mio oggetto di studio recita più o meno così:
“un luogo di difficile accesso, lontano dai principali flussi turistici ed economici. Luogo che fu di cruciale importanza nel passato, ma che soffre ora di abbandono perché la vita è dura, i servizi basilari non sono più garantiti e non ha più attrattiva. Remoto non coincide con il selvaggio (wild), ma è piuttosto quell’ambiente in cui l’uomo incontra il selvatico con cui instaura un delicato equilibrio”.
Ma remoto ha anche un altro aspetto che mi diventa improvvisamente chiaro in questo posto quando si leva il sole e comincio a realizzare l’estensione fisica e mentale del villaggio Eni. Remoto, l’essere remoto è uno stato mentale e si trova spesso più vicino di quanto siamo disposti a pensare. Questo luogo ne è un chiaro duplice esempio. Borca è già di per sè soggetto a questa dimensione di remoto, offuscato dalla vicina Cortina e soggetto al capriccio di mode vacanziere. Ma il villaggio lo è ancora di più, spentosi il fulgore dell’ambizioso progetto nato dalle menti fuori dall’ordinario di Mattei e Gellner.

Non esiste Dio a Borca. Solo due semidei.

Mi dice Gianluca. E così il loro regno, anche geograficamente sopraelevato resta sempre alieno rispetto al paese. Che per altro è la metà dell’estensione del villaggio. Non si è mai realizzato un effettivo sodalizio fra le due realtà e tuttora esiste una certa diffidenza nei confronti del villaggio. Forse anche dello stesso Mattei e delle sue intenzioni.
Il remoto esiste spesso nella nostra testa, nel modo in cui noi consideriamo il tempo e lo spazio. Cambiare la retorica di questi spazi è il primo passo per spezzare la rigidità improduttiva della loro condizione. E della nostra.

A partire dal Cinquecento la nostra percezione delle montagne ha iniziato a cambiare ed è cambiata più volte nel corso dei secoli in modo drastico. Così come quella di molti altri luoghi, come tutte le cose con cui ci confrontiamo sono plasmate dalle nostre dinamiche culturali. Con il tempo abbiamo prima esonerato Dio della responsabilità di queste luoghi repellenti, di incomprensibili imperfezioni sulla sfera del creato. Incuriositi quindi dalla possibilità di scoprire a quale demone attribuire la colpa la nostra cultura occidentale, siamo rimasti posseduti e sconvolti dal fascino mistico di questi luoghi. Ricollocando Dio nelle dinamiche geologiche. L’ebbrezza
dell’altitudine con l’estremo sforzo fisico e mentale che comporta ha eletto questi luoghi a stazioni di contatto con Dio da cui scalzare forze arcaiche e difficilmente controllabili.
Romantici e illuministi poi si sono accavallati sulle cime, più spesso elucubrando a debita distanza, pervasi dalla loro proiezione. I primi alla ricerca di quel fremito delle pudenda che chiameranno Sublime, già prudentemente represso dai loro predecessori che pure lo attribuirono a Dio. I secondi a dimostrare che né dio né limiti esistevano per l’uomo in questa Terra. Cacciato fuori a calci Dio dalle nostre montagne la spinta era ormai inarrestabile e si è andati a spodestare altri dei. Dei di altri in altri mondi.
Ma una volta svuotate le montagne di tutto il mondo del loro arcaico misticismo, consapevoli a meno lo abbiamo sostituito con uno più moderno fatto di eroi resi immortali dal ghiaccio e valori di supposta universalità. Dogmi secondo i quali la Montagna forgia uomini migliori, il rispetto per il prossimo e un senso di responsabilità per l’ambiente.
Eppure ho visto persone salire stronze e
scendere stronze, rafforzate nella loro auto legittimazione ad essere stronzi dal fatto di essere saliti e poi scesi.

Scoppiano guerre di religione che vedono su un fronte i fedeli delle divinità Denaro e Progresso contrapposti da quelli di un animismo borghese dell’ultima ora nel cui pantheon si azzuffano spiriti del mondo e concetti presunti laici. L’idealizzazione della montagna è quindi l’emanazione di un processo culturale assolutamente contingente ma che garantisce ad entrambe le fazioni una proficua
opportunità di business.
Nel frattempo all’ombra di questo nuovo Olimpo ideale tutto resta cristallizzato, incapace di riprodursi ed evolvere. Le persone e le culture si pietrificano stereotipandosi in uno schieramento o nell’altro come le montagne a cui sono aggrappati da secoli. Altri invece se ne vanno, scendendo ad affollare altre terre in una danza eterna di contrazione e espansione. Portando con sé nulla, lasciando dietro di sé solamente lo spazio per nuove esplorazioni in luoghi remoti alla mente.
In questo flusso della nostra cultura il nostro ruolo di alpinisti e montanari, escursionisti degli stati mentali forse è ancora una volta quello di essere sopra tutto iconoclasti.

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