Sguardo di Renato Barilli: Gellner

Gellner, un grande esempio di glocalismo 

immagine gellner per scheda barilli

[…] col tempo la malia, la lezione insita in questa grande realizzazione di Gellner sono penetrate nelle mie vene, le ho assimilate, comprese, amate, estendendo poi l’apprezzamento ad ogni altra traccia del suo intervento, limitata o gigantesca che fosse, fino ad incantarmi in cospetto del prodotto più grande fra tutti, la Colonia di Borca. […] E dunque ho assimilato da vicino il rigore che Gellner mutuava dal Movimento moderno, col connesso razionalismo-funzionalismo, e che per lui costituiva un minimo comun denominatore, un necessario biglietto d’ingresso nell’universo di oggi, tanto per non cedere alle mezze misure, ai compromessi di sapore provinciale. Ma era poi subito pronto a integrare tanto impegno con quanto poteva essere ancora recuperabile da una tradizione locale, di secolari costruzioni condotte secondo regole di saggia antropologia contadina e coi materiali offerti dal territorio. Per dirla in formula, era appunto un’abile conciliazione tra due spinte opposte: da una parte, l’internazionalismo del Movimento moderno, che oggi si potrebbe allargare fino all’inflazionata etichetta del globalismo, con tipologie ahimé applicate ugualmente in ogni parte del pianeta; ma dall’altra, un intelligente, appassionato recupero di radici, di fattori locali, da cui la bella formula risultante, la crasi che ci porta a parlare di glocalismo. Le putrelle, le travature in corretto cemento armato a vista, nella costruzione del palazzo ombelicale di Cortina, sono continuate da travature in legno, improntate ad un medesimo andamento rettilineo; la curva è esclusa, in questa morfologia, però l’apporto di questi sottili e slanciati listelli consente come di triturare la superficie, di non lasciarla greve e inerte, di esercitare quasi un massaggio capillare sulle pareti, accettando tutt’al più di inclinare le travi quando siano chiamate a reggere il tetto, secondo il motivo tradizionalissimo, atavico, della capanna. E dunque, c’è in Gellner un’opzione di partenza per la griglia, per una parata di verticali che si drizzano tese, estenuate, accettando di essere tagliate solo da orizzontali anch’esse condotte con inflessibile rigore. Ma il nostro progettista non si sentiva per nulla schiavo di una rettangolarità canonica, impostata su schemi prevedibili, anzi, c’era in lui una piena libertà e agilità di mosse, nell’andare a piazzare e far scorrere, almeno virtualmente, quei tralicci in modo tale che potessero ripartire lo spazio secondo misure irregolari. Talvolta due verticali se ne stanno vicine, altre volte si scostano, e dunque le superfici sagomate attraverso questi fluidi scorrimenti si ritagliano in modi vari e imprevedibili, facendo qualche concessione all’irrazionale. Questo non entra certo attraverso l’introduzione del famigerato π greco, che sta proprio a indicare la differenza incomponibile tra la retta e il cerchio. Ho già detto che la circonferenza e i suoi derivati non trovano posto nel repertorio del nostro progettista, ma un quoziente di irrazionalità entra in gioco proprio attraverso quell’andare a tracciare ripartizioni in tutti i possibili formati, così da provocare in noi contemplatori un piacevole senso di sorpresa. Un inevitabile termine di paragone per ogni seguace delle prescrizioni del Movimento moderno è dato dall’opera di Mondrian, ebbene, anche in lui, oltre all’atto di censura e rimozione della curvatura, troviamo questa fluida e disponibile scansione affidata al ritmo di verticali-orizzontali, chiamate a compensare quanto viene escluso dal fatto di impedire l’intervento di unclinamen. La griglia ad angolo retto è implacabile, ma riesce a disegnare ogni volta spaziature sempre nuove, imprevedibili. […]

[…] Spostiamoci a questo punto a considerare la massima impresa gellneriana, la Colonia di Borca, e in particolare l’edificio centrale dedicato alle riunioni, sovrastato dal motivo a capanna, che viene pure ripetuto nella chiesa in cima alla collina. Così, si delimita una vetrata triangolare che può essere investita dalla solita animata vicenda di scansioni; l’intelaiatura che regge i singoli vetri disegna uno scheletro mirabilmente vario e irregolare, con snodi, incroci, suddivisioni, affidati a una casualità imprevedibile, legata a un estro felice. Di questo libero, gioioso, spontaneo affidarsi a criteri aleatori, quasi da getto dei dadi, sempre le maxi-strutture concepite e realizzate nella Colonia ci offrono altri felici esempi. Se rimaniamo ancora nello spazio centrale a capanna, scorgiamo che dal soffitto pendono tanti corpi illuminanti, ebbene anch’essi si adeguano a questo medesimo ritmo affidato a una casualità imprevedibile, ovvero i fili che li reggono e che vi conducono la corrente sono posti ad altezze variabili, e dunque quei bulbi pendono nel modo anch’esso più irregolare, il che viene ad animare il contenitore, a renderlo vibrante, reattivo nei suoi vari punti. Se poi usciamo fuori e percorriamo i lunghi corridoi, o fiancheggiamo i muretti di cinta, vi vediamo un’altra delle straordinarie invenzioni gellneriane. Quelle superfici sono interrotte da finestrelle, per l’ovvia necessità di dare luce all’interno, o di consentire, a chi vi si trova, brillanti punti di vista sull’ambiente esterno, invaso da una florida vegetazione. Ma anche nel concepire questi elementi complementari e di dettaglio l’architetto conduce la sua abile opera di fusione dei contrari, infatti le finestrelle rispondono al solito criterio di lucido e rigoroso razionalismo, sono inquadrate entro schemi rettangolari, oltretutto ribaditi da cornici anch’esse quadrangolari, ma le loro ampiezze, di nuovo, sono piacevolmente variabili, quasi che, lasciato cadere il codice delle sostanze inorganiche e artificiali, ne abbracciassero uno proprio delle esistenze organiche, che non si ripresentano mai due volte uguali tra loro. L’architetto gioca liberamente sull’alternanza dei formati, ora più piccoli, ora più grandi, e anche sulla loro dislocazione, ponendoli o più vicini o più lontani, così da respingere in ogni caso una noiosa simmetria, che è anche una caduta di tensione vitale, una concessione alla pigrizia ripetitiva, alla routine, mentre a quel modo l’architetto aggredisce le pareti, pratica in esse una selva di fori quasi per consentirgli di respirare. Se si vuole, è l’effetto di piacevole variabilità che di solito si affida ai motivi decorativi. Gellner in linea di massima si comporta da buon erede del Movimento moderno, in quanto accetta in liea di massima il motto di Adolf Loos che l’ornamento sia da considerare come un delitto, ma si prende la rivincita distribuendo quei suoi pur irreprensibili schemi rettangolari con criteri saltellanti e aleatori, e dunque fa sì che, pur rispettando un codice di rigore, assolvano benissimo al compito di introdurre coefficienti di trasgressione.

Sul conto di questo capitolo è da mettere un altro felicissimo strumento di cui Gellner fa ampio uso, il colore. Anche a questo proposito egli esce da una corretta osservanza dei parametri del Movimento moderno. Esso infatti, così come ripudiava l’ornamento, pronunciava pure un perentorio rifiuto di ogni cromatismo, pretendendo che a parlare fossero solo i materiali allo stato bruto, i cementi a vista con la loro grigia e smorta acromia, oppure le vetrate fin troppo terse e trasparenti. Invece Gellner evidenzia ancor più la scansione asimmetrica delle superfici in quanto procede a una loro colorazione. Ancora una volta si potrebbe invocare una discendenza dall’esempio mondrianesco, che pure lui non rifuggiva certo dalle stesure cromatiche, ma, pervenuto allo stato ottimale del suo stile, aveva deciso di valersi solo dei tre colori primari, giallo-rosso-blu, a contrasto con bianchi immacolati e con neri tralicci di sostegno. Gellner invece capisce che tanta classicità e prevedibilità nel ricorso alla cromia sarebbero provocatrici di noia, causerebbero una caduta di interessi vitali, e dunque varia accuratamente la tavolozza delle sue stesure, evitando che siano troppo appariscenti e squillanti, banalmente affidate ai fondamentali, così come pure le scansioni spaziali rispondono per parte loro a criteri asimmetrici, irregolari. I gialli si devono spostare verso l’ocra, o verso i colori delle terre e del tabacco, i rossi si devono fare come abbrunati, violacei. Ma a ben vedere sono gli stessi colori che oggi usiamo per tutto il nostro arredo, per moquettes di uffici, o per mobili fatti di materiali plastici, come la formica, o per pareti di stanze dove un corretto svolgimento delle attività professionali non vuole rinunciare a solleticare i sensi. A questo modo Gellner conduce una sua riforma o sottile contestazione rispetto alla troppo ovvia scala cromatica cui si affidava Mondrian, così come hanno fatto i pittori appartenenti alla cosiddetta New Geo, dagli anni Ottanta in poi, con lo statunitense Peter Halley in testa, e rispondenze anche in Europa fornite dal tedesco Günther Förg o dallo svizzero John Armleder. Normalità, sì, ovvero adozione di un codice abbastanza unitario, buono per tutti, ma purché esso ammetta ampi margini di variazione, recuperi da riserve del passato, dal folclore, da precedenti suggestivi e stimolanti. Tutto ciò risponde a un regime di compromessi e fusioni come quello attuale, per cui appaiono del tutto efficaci etichette quali il postmoderno e il glocal. […]

 

Il cane a sei zampe.

supercortemaggiore

Poco tempo fa ricordavo il caso di una eccellente collaborazione tra l’ENI, nella persona del suo geniale creatore, Enrico Mattei, e l’architetto Edoardo Gellner. Assieme i due, nei rispettivi ruoli, avevano realizzato nell’immediato dopoguerra l’impresa della colonia sita nei pressi di Borca di Cadore, grandiosa struttura che attende chi ora la rilanci. [...]

Con piena intuizione del ruolo della pubblicità Mattei aveva voluto, nel 1952, un concorso pubblico per la creazione di tutto il sistema grafico volto a lanciare il prodotto, manifesti, cartelli stradali, locandine, destinando ben dieci milioni di lire per i premi nelle varie sezioni, e affidando la gestione della prova alla rivista “Domus”, che era, ed è rimasta, tra le più note del settore a livello mondiale. L’alta posta in gioco fece partecipare ben 4.000 progetti, da cui uscirono i vari vincitori, ma soprattutto emerse lui, il trionfale cane a sei zampe, che risultava proposto dal grafico Giuseppe Guzzi, ma poi si scoprì che era solo un prestanome sotto cui si celava Luigi Broggini, scultore già appartenuto al gruppo di Corrente, il quale si vergognava di apparire nella parte del cartellonista, considerata minore rispetto alla purezza dell’arte maggiore. Calcolo infausto, infatti Broggini oggi non gode di un ricordo particolare, mentre quella sigla ha ottenuto un riconoscimento unanime, e sarebbe ancor oggi in grado di dargli un riconoscimento retrospettivo.

Perché quel simbolo è stato così fortunato negli anni? Intanto proprio per l’idea di dargli ben sei zampe, idea di sapore futurista, in quanto Boccioni e compagni avevano già sottolineato come per esempio un cavallo, nella furia della corsa, sembrasse avanzare sospinto da molte paia di zampe. Del resto Boccioni stesso, più ardito di Broggini, non aveva affatto disprezzato di occuparsi di pubblicità, stendendo alcune magnifiche affiches per l’Automobile Club Italiano. Inoltre, se la stilizzazione dell’animale è agile, come si conviene a un marchio, non manca di punte aspre, taglienti, che sembrano quasi venire dai bronzi etruschi, reca insomma una densa carica selvaggia e aggressiva. E c’è anche quella fiammata di rosso squillante che si pone in efficace contrasto col nero della sagoma e col giallo abbagliante dello sfondo. Una sintesi perfetta, un successo intramontabile.


Renato Barilli

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